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Quando un colore cambia tutto: la localizzazione culturale invisibile che guida i brand nel mondo

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Per chi lavora nella comunicazione globale, il problema non è soltanto trovare le parole giuste. Sempre più spesso il vero terreno delicato si nasconde in ciò che non è verbale: i colori, le forme, le immagini, i simboli che un marchio decide di utilizzare. Elementi che, a prima vista, sembrano universali. Ma che universali non sono affatto.

Se la traduzione tradizionale lavora sul testo, la localizzazione culturale agisce su un piano molto più sottile. È una forma di interpretazione preventiva: capire che cosa vedrà, sentirà e interpreterà un pubblico che non ha gli stessi riferimenti del luogo in cui quel messaggio è nato.

Negli ultimi anni, con l’espansione rapida delle piattaforme digitali, questo tipo di sensibilità è diventato decisivo. Ed è interessante osservare come, dietro le quinte, team di ricercatori, designer, linguisti e antropologi stiano correggendo, adattando e ripensando interi sistemi visivi per evitare errori invisibili a chi vive altrove.

L’ambiguità dei colori: un linguaggio che non ha un dizionario

Uno degli esempi più citati riguarda il colore bianco. In Europa o negli Stati Uniti viene associato alla purezza o alla neutralità. In molti paesi dell’Asia orientale, invece, è legato al lutto. Una scelta cromatica considerata “pulita” può trasmettere inconsapevolmente un messaggio di perdita.

Un caso meno noto riguarda il viola. In Brasile è un colore tradizionalmente associato alle cerimonie funebri, mentre in Giappone simboleggia prestigio e raffinatezza. Non sorprende che alcuni brand abbiano rivisto le proprie palette cromatiche dopo le prime reazioni dei consumatori sudamericani, che percepivano messaggi involontariamente cupi.

Anche in contesti professionali più tecnici si osservano dinamiche simili. In diversi progetti internazionali, consulenti culturali — tra cui linguisti e revisori del network globale di Translated, che opera nel settore da oltre vent’anni e che molti addetti ai lavori conoscono come riferimento nel mondo della localizzazione — hanno segnalato la necessità di evitare il giallo brillante in alcuni paesi dell’Africa occidentale perché associato all’allerta istituzionale; oppure il verde in contesti mediorientali specifici, dove assume significati religiosi forti.

Sono dettagli, certo. Ma dettagli che possono determinare la percezione complessiva di un brand.

Le immagini: ciò che raccontano senza parlare

Un altro campo particolarmente complesso riguarda la scelta delle immagini. Non basta scegliere fotografie “belle”. Occorre scegliere fotografie che non mentano sul contesto culturale.

Sono ormai frequenti i casi di aziende che pensano di apparire inclusive inserendo immagini di uffici “alla Silicon Valley” in paesi dove la cultura del lavoro non prevede open space né team misti nelle stesse modalità. Alcune campagne hanno fallito perché presentavano scene di convivialità serale che, in certe aree del mondo, hanno connotazioni di genere o sociali molto specifiche.

Un episodio significativo riguarda una compagnia tecnologica che aveva utilizzato una fotografia di un uomo mentre toccava la testa di un bambino, un gesto affettuoso in molte culture. In Thailandia, però, la testa è considerata una parte del corpo sacra; la campagna venne criticata e ritirata. Un errore minuscolo, nato da un dettaglio che in un paese non significa nulla e in un altro significa tutto.

La stessa attenzione viene richiesta nei prodotti digitali. Una nota piattaforma per la prenotazione di alloggi, ad esempio, ha dovuto rivedere alcuni set di icone e immagini per evitare rappresentazioni di case, arredi e situazioni domestiche troppo legate allo stile di vita americano. La localizzazione culturale qui non ha riguardato le parole, ma l’immaginario dell’“essere a casa”, diverso in ogni società.

Le forme, i gesti, i simboli: un terreno ancora più fragile

Ci sono poi forme e gesti che attraversano la comunicazione senza che ce ne accorgiamo.

Il semplice segno di spunta, la “checkmark”, non è universale. In alcuni paesi indica approvazione, in altri viene usato come marca di errore, un equivalente della X occidentale. Non è raro che team di localizzazione culturale segnalino che un’interfaccia utente debba invertire i simboli perché ciò che in un luogo significa “confermato” altrove significa “da correggere”.

Anche i gesti sono un territorio minato. In molte regioni del Mediterraneo il gesto della mano chiusa con le dita unite ha un significato colloquiale; altrove è percepito come un insulto. Inserire questo gesto in un’illustrazione o in un video può modificare la lettura della scena.

E poi c’è il tema delle forme: curve, spigoli, linee verticali. Le app cinesi, ad esempio, tendono a utilizzare interfacce molto più dense, ricche di elementi e colori, perché rispondono a tradizioni visive e aspettative cognitive differenti rispetto ai design minimalisti europei.

Il lavoro invisibile degli esperti culturali

Dietro queste scelte ci sono professionisti che spesso non compaiono nei credits. Linguisti, designer, ricercatori culturali, molti dei quali lavorano in network internazionali come quello collegato a Translated, vengono coinvolti non solo per tradurre testi, ma per analizzare contesti, immagini, simboli e potenziali fraintendimenti.

In molti casi questo lavoro comprende anche attività specialistiche come le traduzioni legali, necessarie quando documenti, claim o materiali ufficiali devono essere adattati rispettando norme e sensibilità locali.

Il loro compito non è censurare, ma interpretare. Capire cosa può generare ambiguità. Segnalare ciò che non sarà letto come previsto. Anticipare interpretazioni divergenti prima che diventino problemi.

È un’attività fatta di osservazione e ascolto, più che di software. La tecnologia può suggerire tendenze, ma la sensibilità culturale rimane profondamente umana.

 

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