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La forza di polizia penitenziaria è in svantaggio. È necessario un autentico programma di riabilitazione

“Il trattamento severo nei confronti della polizia penitenziaria deve terminare. Non accettiamo la detenzione preventiva indeterminata né la sospensione del servizio prima del primo processo.” Questo è il messaggio che Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato della polizia penitenziaria, ha trasmesso ieri davanti al carcere minorile Beccaria, sostenuto da colleghi e famigliari degli ufficiali dell’istituto penitenziario di via Calchi Taeggi, i quali furono arrestati nello scorso aprile per un’inchiesta su presunte violenze e atti di tortura ai danni dei detenuti. Tra i fermati, vi erano 13 membri della polizia penitenziaria e altri 8 che sono stati sospesi dal dovere.

“Sentiamo un senso di rifiuto da parte dello Stato, siamo delusi,” continua Di Giacomo, “ogni qual volta accade un incidente, l’ente penitenziario non è mai ritenuto responsabile, solo l’agente di polizia,” in un periodo dove “le condizioni delle prigioni, in particolare quelle per minori, sono gravi”. Seguendo la “tempesta,” “alla Beccaria nulla è cambiano, anzi, vi sono state ulteriori rivolte ed evasioni”. E la polizia penitenziaria “è nuovamente la più penalizzata, con il cambio di capo. In realtà, dovremmo stringerci attorno al sistema penitenziario con azioni concrete.”

Di Giacomo ha sottolineato poi le sfide dell’ambiente di lavoro: “Siamo obbligati a fare turni troppo impegnativi. Chi interagisce con i prigionieri fa almeno 40 ore extra al mese. Non sono predisposti percorsi differenziati, a seconda dell’età e del tipo di delitto, con una rieducazione che sia adeguata per ciascun ragazzo. Al Beccaria sono stati inviati 44 nuovi agenti, ma ne avremmo bisogno di 70 in più, così come ci servirebbero più psicologi ed educatori”.

Sulla strada, tra i parenti degli ufficiali detenuti, sono emerse le figure di Isabella (un tempo agente di polizia penitenziaria a Beccaria) e Salvatore, il cui figlio di trenta anni è stato rilasciato agli arresti domiciliari. Salvatore esprime frustrazione per l’etichetta “mele marce” attribuita agli ufficiali, includendo suo figlio che si sveglia presto alle 5 del mattino e ha mostrato sempre rispetto, ma che ora si trova in questa situazione incerta. “Ma ne uscirà”, afferma con sicurezza.

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