Un infermiera di Milano descrive le notti passate insieme ai pazienti, gli sguardi e il terrore nei loro occhi e la paura di non riuscire a salvarli.
Sono tantissime le testimonianze e i racconti dei medici degli ospedali italiani. L’emergenza coronavirus raccontata dai protagonisti in prima linea vuole mettere in chiaro la situazione: Maria Cristina Settembrini, infermiera all’ospedale San Paolo di Milano ricorda le sue lunghe notti con i pazienti. Sono sguardi ombrati dal terrore quelli dei pazienti che ogni giorno vengono ricoverati. Qualcuno cerca rassicurazioni, altri chiedono promesse. Nessuno, però, conosce ancora il farmaco giusto per sconfiggere il Covid-19. I medici tentano il tutto per tutto per salvare ogni persona, ma spesso è troppo difficile. “Abbiamo mandato in rianimazione un 42enne – ha raccontato Maria Cristina a Fanpage -. Mentre gli stringevo la mano, lui mi ha implorata: ‘Ditemi che mi sveglio, ho due bambine a casa’. La mia mascherina si è riempita di lacrime”.
Quello che non si potrà mai dimenticare delle notti interminabili in ospedale è lo sguardo dei suoi pazienti: gli occhi, infatti, sono “l’unico modo per comunicare tra noi col volto coperto e loro sotto il casco. E riusciamo a dirci tutto. Quando vanno in crisi, gli tocco le gambe, perché il resto del corpo è pieno di fili”.
Coronavirus, l’infermiera di Milano
Fa venire i brividi il racconto dell’infermiera dell’ospedale San Paolo di Milano: Maria Cristina soffre ogni volta che un paziente entra nella struttura per aver contratto il coronavirus. Nonostante la lotta per aiutarlo e dargli le cure necessarie per sopravvivere, non sempre si riescono a salvare le vite umane. Tutti i 15 posti letto disponibili sono occupati da pazienti Covid-19: i più giovani hanno 48, 50 e 61 anni.
“Alle cinque e mezza del mattino – ha detto Maria Cristina all’Agi -, quando gli animi si erano calmati e tutti dormivano, ho sentito come l’allarme di una bomba e ho visto una luce rossa che lampeggiava. Siamo corsi tutti a cercare di capire cosa fosse successo. Abbiamo acceso le luci e ci siamo accorti che eravamo in riserva di ossigeno“. Restava soltanto un’ora di autonomia. “Mentre il medico di turno ci invitava a stare tranquille, io e le mie colleghe ci siamo guardate e abbiamo pensato chi rianimare per primo, nel caso”. Ma il rimedio, fortunatamente, c’era. “Abbiamo chiamato l’ufficio tecnico e, nel giro di mezz’ora, sono arrivate due squadre. Hanno messo l’ossigeno nel pilone davanti all’ospedale che mi sono sempre chiesta a cosa servisse. I pazienti non si resi conto quasi di nulla, il casco che hanno in testa fa un rumore devastante per loro e anche per noi. E poi suona sempre e quando suona dobbiamo correre”.
Questa emergenza è un momento difficile anche dal punto di vista psicologico: dietro a ogni paziente, infatti, c’è una famiglia, magari dei bambini o dei nipoti. Ci sono delle vite che potrebbero cambiare per sempre. “Nella mia vita da infermiera – ha raccontato la donna -, ho pianto una volta a 18 anni e qualche volta quando sono mancati pazienti di lungo corso, a cui mi ero affezionata. Ora invece si piange tutti i giorni, soprattutto quando devi scrivere tre lettere: NCR. Non candidato alla rianimazione”.
I sogni di Maria Cristina
Nonostante tutto, però, la forze di tornare in reparto ogni giorno e la speranza di poter finalmente sconfiggere questo virus è tanta. Maria Cristina ha tre sogni nel cassetto: “Avere più presidi per proteggerci in reparto e l’aiuto di altri colleghi, siamo al limite delle forze”, il primo. “Avere uno stipendio più alto per chi fa la mia professione, che ora ci sentiamo umiliate per quello che prendiamo rispetto alle nostre responsabilità”, il secondo. “E, quando sarà finito tutto, andare a Marsa Alam e davanti al mare dimenticare tutto”, il terzo.