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Crisi, addio alla Yamaha di Lesmo. In Lombardia continua l'autunno caldo degli operai e dei precari (interviste)

Non ci sarà nessuna trattativa tra sindacati e direzione. La Yamaha di Lesmo ha chiuso definitivamente i battenti ed entro l'8 gennaio trasferirà la produzione in Spagna, senza concedere ai suoi ormai ex dipendenti neanche la cassa integrazione straordinaria. Altri 66 lavoratori dicono addio al loro posto in azienda, e mentre i 41 operai della Innse sono ormai rientrati al lavoro dopo la clamorosa protesta di qualche mese fa, ad Arese la Fiat si prepara a chiudere la produzione. (fonte immagine)

Da 20 mila operai all'inizio dello scorso secolo, a meno di mille dipendenti a fine 2009. L'Alfa di Arese viene sacrificata sull'altare della grande Milano delle esposizioni universali. Lo dice chiaramente Corrado Delle Donne, storico leader dei Cobas dell'Alfa Romeo: "vogliono trasferirci a Torino perché l'area della fabbrica serve per l'Expo del 2015". Ma nessuno vuole darsi per vinto e in settimana i sindacatai hanno allestito l'ennesimo presidio davanti alla sede della Provincia di Milano.

Rievoca il clima dell'autunno caldo del 1969 Susanna Camusso, leader della Cgil, che si esprime così a proposito delle forme di protesta alle soglie del 2010: "questa volta si protesta per resistere – dice la Camusso – perché sappiamo tutti che un posto di lavoro distrutto oggi non si recupererà quando la crisi sarà superata. Bisogna sopravvivere nella bufera per poter vivere dopo." E ancora: "la maggior parte degli operai oggi lavora fuori dalla grande industria. Quando i cortei di fabbriche con decine di migliaia di operai uscivano in strada non c'era bisogno di altro perché se ne parlasse. Se chi lavora in un'azienda con 40 dipendenti non sale sul tetto, non se ne accorge nessuno".

E sul tetto, o meglio, sulla gru, ci erano saliti gli operai della Innse, tra i pochi vincitori di questo periodo tanto travagliato quanto carico di tensione. Ma guai a parlare di protesta per disperazione . "Quel che mi fa più arrabbiare è quando voi dei giornali scrivete che lo abbiamo fatto per disperazione. Noi lo abbiamo fatto per calcolo. Sapevamo perfettamente che avremo potuto vincere se avessero bloccato il trasferimento delle macchine. E così è stato". Sono le parole di Massimo Merlo, uno dei primi operai a salire in cima alla gru e che oggi, all'età di 54 anni, diventa punto di riferimento per gli operai di altre fabbriche in difficoltà: "io io dico sempre: non basta salire sul tetto per essere sicuri di aver vinto. Dipende dai casi. La regola principale è: mai salire senza aver deciso bene a quali condizioni scenderai".

La Innse da una parte, la Yamaha, l'Alfa di Arese e chissà quante ancora dall'altra, rappresentano modelli di lotta assai diversi. Il clamore e il calcolo, la resistenza e la rabbia. Volti assai differenti che ben inquadrano l'universo degli invisibili delle fabbriche, quelli che combattono e che magari a volte riescono anche a vincere. Quelli rappresentati dal sindacato, quelli che ancora riescono a sentirsi parte di un insieme più ampio. Non così i tanti precari, co.co.co. e coco.pro, lavoratori a partita iva, professionisti a vario titolo che di garanzie e di rappresentanze sindacali non ne hanno; a volte per scelta, molto più spesso per necessità. Noi ne abbiano intervistati un po' in centro a Milano e quanto segue è la confusa fotografia di un secondo universo sempre più privo di certezze. E a volte, di speranze per il futuro. 

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