Re Giorgio, così viene spesso chiamato, non per vanità, ma per il suo indiscutibile impatto nel panorama della comicità italiana. È stato lui a portare questo stile nel nostro paese, a viverlo in prima persona, diventando un simbolo della stand-up grazie a un mix di talento e provocazione. La sua carriera è stata segnata da conflitti e cambiamenti, passando da RaiDue a Rete4 e persino a Le Iene. La vita di Giorgio Montanini è stata un continuo alzare i gomiti, finché un’improvvisa pausa non lo ha costretto a fare fronte a una polmonite virale, che lo ha ridotto in coma per 45 giorni. Al suo risveglio, ha abbandonato le cattive abitudini e ha iniziato a dedicarsi all’attività fisica, ritornando sul palcoscenico con uno spettacolo autobiografico dal titolo “C’è sempre qualcosa da bere”. La sua esperienza di vita, complessa e misteriosa, lo ha reso ancora più incisivo, mantenendo intatto il suo spirito combattivo, anche se ora in tuta.
E Montanini, come si sente ora?
“Sto molto bene, grazie. Un anno fa le cose erano difficili, ho perso 50 kg. Considerando che pesavo 150 kg, direi che sto meglio. La vita mi ha fatto capire che il mio stato psicofisico era insostenibile e tale esperienza mi ha costretto a fermarmi. Altrimenti, le cose avrebbero potuto finire male. Questa è una seconda chance per me. Ma il mio approccio al mondo non è cambiato.”
Quindi la sua visione è rimasta invariata?
“Esatto, anzi, potrei dire che sono diventato persino più cinico.”
Cosa significa per lei “stand-up”?
“Significa letteralmente stare in piedi, ma in effetti rappresenta un cambiamento culturale, come il passaggio da Nina Pizzi ai Beatles in altri ambiti. Nel nostro settore, si è fatto un passo indietro per abbandonare il semplice intrattenimento e abbracciare una comicità che riflette sulla realtà, che è innovativa. Anche se in Italia questa evoluzione è arrivata con un notevole ritardo di 30 o 40 anni.”
È considerato un pioniere in questo campo.
Dal punto di vista mediatico, ho avuto una certa visibilità. È qualcosa che il gruppo Satiriasi, da cui provengo a Roma, praticava già. La stand-up ha eliminato i classici tormentoni, i brevi sketch televisivi e i personaggi stereotipati. Tuttavia, cada uno ha il proprio stile; non tutti devono imitare il mio.
Rimanendo fermi sui temi, non si rischia di restare solo a un livello superficiale?
Sì, esattamente. Qui si palesa la netta differenza tra un artista e un intrattenitore. Altrimenti saremmo semplicemente a Zelig in un altro formato. La domanda cruciale è se si veda la risata come un mezzo o come un obiettivo. Personalmente, la considero un’arma per esprimere le mie opinioni su questioni sociali, politiche e leggi.
Esiste un’idea di risata reazionaria?
Diventa tale solo quando si segue un pensiero unico. Altrimenti, c’è spazio per figure come Woody Allen e Zalone.
Che posto ha il mercato in tutto ciò?
Solo un piccolo numero di persone guadagnerà bene. Gli altri sopravvivono o lo fanno per passione, in un contesto in cui la televisione vive una crisi, mentre gli spettacoli live vanno a gonfie vele. A me interessa poco. Ho esigenze ben precise, e da quelle parti tutto il mio lavoro. È meglio lasciare il mercato ai grandi nomi come gli Agnelli. È comunque stimolante avere duemila persone davanti a te con biglietti autentici, non solo numeri di visualizzazione. Anche se andrebbe bene anche se i presenti fossero dieci volte meno.
Forse è per questo che hai avuto conflitti con molti in televisione?
Il problema risiede nella direzione editoriale. Sono consapevole del valore del compromesso e di come sia importante entrare nelle case delle persone. Tuttavia, c’è un limite che tocca la sacralità di ciò che stai realizzando.
Un comico deve necessariamente essere provocatorio?
È tipico del comico opporsi al potere. Siamo come gruppi che si infiltrano tra le fila nemiche senza alcuna difesa, pronti a sacrificarsi, tanto che se dovessimo cadere, nemmeno un funerale ci verrebbe riservato. Siamo i “bastardi senza gloria” che si esibiscono a stretto contatto con il pubblico, sul palcoscenico, privi di ogni protezione. In quei frangenti, occorre comportarsi come un’autorità, con fermezza.
I social network generano confusione riguardo al valore di alcuni personaggi?
“Beh, c’è un problema rispetto alla comicità, ma mi interessa solo in parte. È più serio quando si tratta di cultura, politica o divulgazione scientifica. La confusione tra consenso e qualità è preoccupante: se seguiamo questo criterio, Hitler potrebbe essere considerato il più ‘qualitativo’ di tutti. Non possiamo ridurre l’arte a video di trenta secondi, dobbiamo confrontarci con la realtà. E mi colpisce chi cerca di compiacere l’algoritmo invece di prestare attenzione all’idea, tentando di trovare un equilibrio impossibile tra le preferenze della giovane e quelle della nonna”.
Qual è la sua opinione sul politicamente corretto?
“Lo paragonerei al vecchio olio di ricino. Se un politico appare in TV, può permettersi sostanziali depravazioni. Può affermare di usare la ruspa per scacciare le persone e sembra tutto accettabile. Ma se io dico ‘frocio’ in un contesto che si oppone all’omofobia, è una catastrofe. Mi sembra un’inganno, un’idea di stampo fascista, anche se proviene da quelle socialdemocrazie ultracapitaliste del nord che per anni abbiamo ammirato. È meglio il nostro ambiente culturale, dove c’è ancora una speranza da coltivare.”
Quando tornerà a Milano?
“Ad aprile sarò al Martinitt e forse in estate all’Arena Milano Est. Prima di gennaio però mi dedicherò alla scrittura tra le mura di casa.”