Alfredo "il Kappa" Cappello si racconta: "Tutti hanno tutto ma in realtà non hanno niente. Sono felice di aver aiutato tanti artisti"
Alfredo Cappello detto ” il Kappa” è un pò difficile da descrivere perchè fa e ha fatto tante cose e di conseguenza è tante cose. Se volessimo tracciare con un compasso un cerchio che tocchi le cose che fa, sicuramente l’ago del compasso sarebbe posizionato nel nos Milàn.
Molti ti conoscono come il ” K dell’ammonia” mentre per altri sei quello del Filler e per altri ancora quello Della Gibson ed altro ancora . Chi sei Alfredo?
Sono una persona che non insegue un sogno, amo le cose concrete, e avevo delle passioni. Arrivo da una famiglia che mi ha fatto respirare l’arte fin da quando ero in fasce, e crescendo la musica è diventa una passione sempre più grande, siccome non sono un creativo, suono malissimo la chitarra e non sarei in grado di scrivere il testo di una canzone senza coprirmi di ridicolo, ho trovato nel mixer il mio compagno ideale per cercare di far diventare la passione un lavoro, quindi, una volta finita la naja, mi son trovato davanti al fatidico bivio: vivere una vita di sofferenze lavorando in un ufficio o vivere una vita di sofferenze facendo una cosa che mi piaceva. Inutile dire che molto coraggiosamente ho scelto la seconda. Da quel momento è stato un vortice: tecnico del suono, produttore, fonico dal vivo, tour manager… ho incontrato persone splendide (Olly Riva degli Shandon ad esempio) che mi hanno spinto a fare l’etichetta discografica (l’Ammonia Records) e poi la società di edizioni musicali (la Punx Crew, che a marzo festeggerà 20 anni di attività con quello che per me è ormai un fratello, ossia Max Finazzi)… potrebbe bastare? No, perchè l’industria discografica è andata in malora, e allora perchè non sfruttare le conoscenze e aiutare
i brand e le aziende a fare eventi con la musica? Da lì nasce Three Mothers, che è un po’ il riassunto della mia vita, farsi in tre per le
persone con cui ti trovi bene a vivere e lavorare… quindi consulenze, festival… insomma in tutto questo girare incontro anche Dario
Maggiore, mi coinvolge in Filler, che per me è la coronazione di un sogno: tornare al mondo dell’arte, tramite questa incredibile convention
di illustratori. Per un figlio di una Critica d’arte e direttrice di una Galleria d’Arte e di un mercante d’Arte e Pittore era un cerchio che si
chiudeva. Cerchio che si è chiuso ancora di più riuscendo, negli ultimi tre anni, a fare una mostra di chitarre Gibson (di cui sono consulente
da parecchio) trasformate in pezzi unici proprio a Spaziotemporaneo, la Galleria d’arte di mia madre. Poi visto che non ero molto sicuro che
tutte queste passioni bastassero ho iniziato anche a gestire la programmazione dei Magazzini Generali, d’altra parte conoscendo tutti i
promoter da vent’anni era anche l’ora di farsi odiare un po’ di più!
Tutte le cose che fai sembrano per certi versi scollegate ma non lo sono affatto. Spiegaci il percorso che le unisce.
Credo che traspaia dalla risposta precedente, fondamentalmente cerco di far si che le mie passioni riescano ad andare oltre al semplice momento o gesto in cui si svolgono, cerco sempre di seminare per far germogliare qualcosa, che siano strutture o persone. Credo ciecamente negli esseri umani, che non vuol dire che mi fidi di tutti, anzi, ma penso che le persone siano su questo pianeta per fare o partecipare a grandi cose, a prescindere che siano cose microscopiche come fare un concerto dove il pubblico sia contento, o macroscopiche come cercare di creare una società migliore. Sono convinto che l’arte in tutte le sue sfaccettature ed espressioni sia una cosa unica, che DEVE far parte dell’essere umano. Senza si è poveri dentro, se non sai trovare la tua strada per cercare il bello, vivrai solo facendoti dire che cosa è bello e cosa no, e questo per me è inaccettabile.
Tra le tue passioni quale ritieni che sia quella preponderante o se preferisci principale? Non intendo quella che al momento segui di più ma quella che è il trait d’union del cerchio di cui accennavo nella breve introduzione.
Sviluppare progetti. Creare eventi o concerti o comunque aiutare un artista nella sua carriera è appassionante perchè ti costringe ad andare oltre i tuoi limiti, e allo stesso tempo ti spinge a costruire cose che coinvolgono altre persone anche oltre una durata ben precisa. La cosa paradossale è che proprio oggi con tutta la tecnologia che ti aiuta ad abbattere barriere e costi, tutto quello che fai ha una durata molto più breve di anni fa. Tutti hanno tutto, ma in realtà non hanno niente. In questo chi ha costruito o progettato bene attività a lungo termine può godere di un privilegio, la credibilità. E sono orgogliosissimo di avere fatto molti progetti che sono tutt’ora attivi come l’Ammonia Records e la Punx Crew, esattamente come sono ben felice di aver aiutato tanti artisti ad emergere.
L’essere milanese e la città di Milano che influenza ha avuto sulle tue passioni e di conseguenza sul tuo lavoro?
Fondamentale. Senza girarci tanto attorno, negli anni 90 chi era a Milano aveva la possibilità di confrontarsi con il cuore economico
dell’Italia e aveva un ponte verso il resto d’Europa. Mentre chi non era qui continuava ad aggrapparsi a illusioni, alla fine senza Milano non concludeva niente. Ma oltre alla questione economica, era la possibilità di avere tutto e prima. Qui, parlando della musica, passavano i concerti più importanti, qui sono stati fatti i primi festival, qui c’erano gli uffici delle Major. Se andavi all’estero nessuno prendeva in
considerazione Torino, Roma, Firenze. Milano era ed è ancora oggi un biglietto da visita per poter lavorare. Spiace dirlo, visto che l’Italia
ha fatto passi da gigante negli ultimi 30 anni, ma per un Paese, conosciuto dagli stranieri per l’incredibile patrimonio artistico e allo
stesso tempo per l’incapacità di renderlo fruibile bene, Milano è quella città in cui un europeo si trova più a suo agio, o se vogliamo “a casa
sua”. In questo i Milanesi d’origine o d’adozione hanno sempre avuto una marcia in più. Poi se devo dirla tutta, visto che l’Italia l’ho girata
veramente in tutti i suoi angoli, non cambierei nessuna città o paese italiano per niente in Europa, la varietà che si trova nella nostra
penisola (e nelle sue isole) è incredibile, mi spiace solo che non venga valorizzata, cosa che Milano invece ha saputo fare molto bene invece.
La milanesitá dei Cappello parte con l’arrivo di tuo nonno Carmelo Cappello a Milano che a Milano ha dato un grande contributo artistico. Vuoi parlarne a chi ci sta leggendo?
Mio nonno arrivò a Milano giovanissimo, negli anni ’30, e da qui è riuscito a girare il mondo con la sua arte e le sue sculture, per tantissimi anni ha avuto uno studio in Brera, che per me da bambino era come un’astronave: gigantesco, anche perchè doveva ospitare alcune sue
sculture veramente grosse, ogni tanto ci giocavo pure a pallone (ma con un pallone rigorosamente di spugna, perchè se avessi danneggiato
qualcosa non sarei qui a rispondere alle tue domande). Il suo legame con Milano è stato forte, sia per le frequentazioni con altri artisti, anche
da questo punto di vista Milano è stata sempre molto viva, sia perché negli anni ’80 dopo 50 anni di vita da “milanese” la città lo ha ringraziato prima con un Ambrogino d’oro, poi mettendo una sua scultura in Piazza VI Febbraio, dove ancora è, ed infine facendolo partecipare a Percorsi della Scultura, un’iniziativa bellissima che ha permesso a mio nonno, insieme ad altri 30 scultori, di esporre le proprie sculture lungo tutto Corso Vittorio Emanuele. Se sono quello che sono, è anche grazie a questo piccolo uomo siciliano, che non si è arreso, ha
rischiato e ha vinto.