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Sandro Patè: “A Milano succede sempre qualcosa”

Nonostante la giovane età, Sandro Paté è una preziosa memoria storica della città di Milano. Con i suoi libri, infatti, racconta "cose di Milano": il cabaret, Enzo Jannacci, l'Inter...

Sandro Patè

Non si puo parlare di Milano senza parlare del Sandro Patè che in questo appuntamento settimanale ci sta (scusatemi il puerile gioco di parolo. Lo so che è puerile, lo so) come il paté in tavola nei giorni di festa. Il Sandro (mi scusino i non milanesi che storceranno il naso davanti all’articolo determinativo davanti al nome proprio ma sem a Milàn) pur giovane come l’acqua è una preziosa storica della milanesità delle radici che sono presenti e visbili come quelle dei platani sulla circonvalla che sollevano ed emergono dall’asfalto.

Hai scritto diversi libri e tutti su personaggi che hanno codificato la milanesità: il Dogui, Enzo Jannacci e Cochi e Renato. Quale è il trait d’union, milanesità a parte, che li unisce?

Il filo conduttore era, è e sempre sarà il poeta in scarp del tennis, il dutur della canzone – come ho letto nel corso delle ricerche per il libro che abbiamo scritto io e Andrea Ciaffaroni su Cochi e Renato in un vecchio ritaglio de La Notte – “il Beckett de l’Idroscalo”.

Ovviamente, si tratta del sempre grandissimo Enzo Jannacci. Enzo è stato un punto di riferimento per chi iniziò a fare cabaret negli anni Sessanta, ma anche un pioniere, oserei dire un esploratore del tempo. Andava a suonare jazz in rassegne di appassionati in giro per l’Italia, allora quasi tutta la musica straniera era una musica davvero difficile da ricercare. Uno scenario molto diverso da quello attuale ma che forse è stato un toccasana per la ricerca della propria originalità.

E poi Enzo cantava canzoni come Il cane con i capelli o L’ombrello di mio fratello che di fatto inaugurarono un genere, un cabaret in musica che era fatto di piccole grandi storie e dal mio punto di vista dimostrò che andare alla ricerca di un pubblico anche piccolo in giro per Milano era una cosa rivoluzionaria.

Ne ho parlato recentemente con Massimo Boldi di questa faccenda. Lui è affascinato dal fenomeno degli youtubers, degli influencer e dei personaggi costruiti grazie alla rete, per lo stesso motivo. Cochi e Renato lo hanno detto per decenni a chi li intervistava. I teatri non volevano i cabarettisti come loro, la TV idem, il cinema era una faccenda lontana che facevano in pochissimi. Enzo, letteralmente, si inventa da zero.

D’altronde i primi anni Sessanta, soprattutto Enrico Intra, musicista raffinatissimo ma anche direttore creativo di locali di cabaret, offriva a tutti un palco – abbiamo trovato pezzi di cronisti degli anni Sessanta che raccontano serate impostate proprio con l’invito a tutti di salire su un palco per raccontare qualcosa – era un’occasione molto diversa da ciò che offriva il teatro di prosa, o il varietà già abbastanza moribondo, per avere l’attenzione di un piccolo gruppo.

Il cabaret di quegli anni è la preziosa testimonianza di un momento in cui lo spettacolo dal vivo offriva spazio a chi aveva una propria poesia, un proprio stile, qualcosa di molto personale, un modo di fare, un racconto nel cuore o un “sogno nel cassetto” (cit. Intra).

Ecco perché poi Dario Fo, Mario Monicelli, Umberto Eco, Cesare Zavattini solo per fare alcuni nomi a un certo punto vogliono conoscere Jannacci. Impossibile non rimanere intrigati dalla sua inadeguatezza, ma anche il suo entusiasmo, la profondità delle sue canzoni e il suo senso dell’umorismo fulminante.

Direi che l’elemento che unisce i nomi che mi hai fatto era proprio l’ammirazione, laddove non proprio l’amore per il suo stile e il suo modo di fare. Il mitico Dogui, di cui mi sono occupato, viveva circondato da comici, era grande amico di Enzo e secondo me apprezzava molto la filosofia dei cabarettisti che aveva intorno perché erano controcorrente, soli contro tutti, ma ognuno a proprio modo al centro di un mondo.

Come vedi cambiata Milano dall’epica di Jannacci e Cochi e Renato al epoca del Dogui?

Facile dire che non è rimasto nulla, che il passato è sempre migliore del presente e che fa tutto schifo perché nei locali di oggi non ci sono più mostri sacri come Jannacci, Cochi e Renato, Felice Andreasi, il Teo, il Godie (Diego Abatantuono) e tantissimi altri. Sarò controcorrente. Io penso che a Milano succeda sempre qualcosa.

Ho intervistato recentemente i figli di Lino Toffolo, personaggio meraviglioso su cui spero di scrivere presto queicoss. Mi hanno raccontato che il padre veniva a Milano per lavorare nei locali di un tempo dicendo che andava nella New York d’Italia. Io, abito a Nolo, quartiere in profondo cambiamento, lo vedo succedere ogni giorno. Sotto casa mia ha aperto una libreria, si tratta di Anarres Libreria-Bistrot che conosco ancora pochissimo ma che già merita tutta la mia ammirazione.

È successo nella settimana in cui i dati Istat e Ali (associazione di categoria dei librai italiani) dicono che da 17 anni il 40% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. In alcuni paesi del Nord Europa l’80% ne legge almeno uno. A Milano, malgrado tutto, le analisi dei big data che vanno di moda oggi l’avrebbero sconsigliato, una libreria può aprire.

Non c’è più il mitico Derby, ma c’è La Santeria del mio amico Giulio d’Antona. Non c’è più il Nebbia Club, ma c’è il Ghe Pensi Mi di Matteo Russo che organizza un evento a sera. Qui c’è una buona energia. La stessa energia degli anni Sessanta che spingeva i nomi che ho fatto finora a cercare un’alternativa alla TV. Un tipo di intrattenimento ieri come oggi, tranne rare eccezioni, di basso profilo. Enzo Jannacci me l’avrà detto mille volte: “Spegni la televisione prima che la televisione spenga te”.

Milano è una città fluida e come tale sempre in cambiamento. Come la vedi cambiata in questi anni?

Milano è un buon posto in cui abitare. Ho aneddoti. Nei miei libri ce ne sono sempre moltissimi allora ne approfitto con uno tutto mio. Ne sfodero uno per l’occasione: sono in ospedale per dei calcoli. Il mio vicino di letto e sua moglie, calabresi in trasferta per un consulto, stanno provvisoriamente a Lambrate, mi vogliono convincere che Milano è invivibile perché è cara, incasinata e il tempo è quello che è. Ovviamente, non hanno idea che io da anni scrivo solo di avvenimenti accaduti qui.

Mi dicono che dove stanno loro quando sono tristi escono in giardino, prendono un pomodoro, lo aprono, un “giro d’olio”, quello buono che fanno loro, il loro origano e se lo mangiano. Bellissima prospettiva, splendida abitudine e bella storia. Torno a casa il giorno che Salvini incontra il Premier ungherese Orban per il famoso “vertice dell’intolleranza”. 10.000 persone si ritrovano in San Babila per protestare pacificamente contro le idee dell’allora governo Lega e Movimento 5 Stelle di chiudere porti e “rivedere” il concetto di accoglienza. Una fiumana di gente.

Evidentemente questa città riesce ancora a mobilitare persone grazie ai valori, le idee, le posizioni non per forza di natura partitica. Oltre ai flashmob inventati da qualche geniaccio del marketing per lanciare qualche tariffa telefonica la città riesce a organizzare in tempo zero queste azioni. Azioni che sembrano davvero di altre epoche. A Milano. Ci sono finito in mezzo. Bloccato. Mica male.

Riusciresti a vivere in un altro posti che non fosse Milano giu di li?

Assolutamente sì. Milano, come cantava Enzo ce l’ho dentro negli occhi perché l’ho vista dal tram. Sono nato qui, sono cresciuto in provincia, ma tutte le scuole, i primi lavori e gran parte delle mie presentazioni, il tempo libero, le colazioni… faccio tutto qui. Però, quando ho visto Tokyo e il Giappone mi sono detto, unica volta finora, io mi fermerei qui. Il luogo migliore in cui sia mai stato. C’è solo l’ostacolo della lingua. Se dico a uno di Kyoto “cià tira foera ‘na cadrega” o come diceva il Dogui “NCS. La quaglia è vuota”. Non mi capirebbe nessuno.

Un personaggio milanese imgiustamente dimenticati è Piero Mazzarella. Farai un libro su Piero Mazzarela?

Ne so poco anche se come sai per i miei libri intervisto una marea di gente e in questi anni anni ho sentito parecchie storie. Te ne racconto solo una che ha come protagonisti i miei amati vecchi comicastri. Piero non era realmente un cabarettista, eppure conosceva bene Jannacci, Renato Pozzetto, con cui ha girato il mitico Un povero ricco per le vie della città e tanti altri.

Un giorno, purtroppo, ritrova Jannacci in Chiesa per l’ultimo saluto a uno di questi amici di un tempo. Non ricordo chi fosse, dovrei fare mente locale e rivedere i faldoni che ho accumulato. I due si salutano perché in effetti non si parlano da tanto tempo. Mazzarella è in ginocchio in un banco non lontano dall’altare.

Jannacci dopo un po’ di ricordi, dimostrazioni d’affetto e promesse di nuovi incontri futuri, magari in circostanze diverse, vorrebbe salutarlo e andarsene ma nota che Piero non si muove, rimane in ginocchio e fa la sua bellissima faccia un po’ imbarazzata. Quegli occhietti piccoli che conoscono tutti. Allora Enzo gli dice: “Piero, noto che sei diventato molto religioso…”. Risposta di Mozzarella: “No, è che non riesco più ad alzarmi”. Enzo, che già aveva qualche problema di mobilità non so come riuscì a tirarlo su.

Che squadra tieni?

La mia faccia è la tipica faccia da Inter. Avevo il pallone di Karl Heinz Rumenigge quando seri un fiulin e il poster di una delle sue rovesciate. Dico una cosa da vecchio. Io mi accorgo con il tempo che a me non piace tanto il calcio. A me piace proprio l’Inter, i suoi giocatori, il grande romanzo delle dichiarazioni dei dirigenti, quelle degli allenatori, quelle dei giocatori prima e dopo le partite.

Mi fa ridere, per esempio, il rito delle prime dichiarazioni durante le presentazioni ufficiali con la stampa: “Sono sempre stato interista”. L’ho sentito dichiarare da un greco, da un camerunense e un portoghese. Bellissimo. Io lo dico con un certo orgoglio: perdo tempo a capire che fine hanno fatto i giocatori che ho visto indossare la maglia nerazzurra. Stephan Dalmat, Pierluigi Orlandini, Wim Jonk, Ciriaco Sforza.

Vado a rivedere i loro goal su YouTube, cerco info sui giornali o vedo almeno se sono ancora vivi. Lo so è una cosa da vecchio, ma io ero già vecchio nel ’91. Io sono l’Inter. I miei ricordi, gli eventi più importanti della mia vita e una valanga di aneddoti sono ancorati alle partite dell’inter. E viceversa. Esonero di Simoni = novembre ’98, anno del mio servizio di leva. Laurea nell’aprile del 2005 = Derby in Champions League Milan Inter 2-0. Potrei andare avanti parecchio.

Non saprei come mettere a frutto questa abilità, ammesso che lo sia, se non facendomi assumere dall’Inter. Anzi, ne approfitto… Sono pronto! Saverio (inteso come Zanetti), Stephen (il piccolo grande Zang), Lele (Oriali!) chiamatemi… sunt chi!

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