Ieri, come avete visto in questo post, siamo andati a Chinatown in visita al camper del Corriere della Sera per potervi fornire la nostra opinione sui vagiti 2.0 del giornalismo tradizionale.
Essendo in zona non ci siamo lasciati scappare l'occasione di vedere se qualcosa fosse realmente cambiato a Chinatown dopo la famosa rivolta del 17 aprile scorso, quando la rabbia cinese esplose causando scontri con la polizia. Seguirono settimane di tensione che portarono ad un presunto accordo per trasferire le attività dei cinesi in un luogo più adeguato al commercio all'ingrosso.
Partiamo proprio da quest'ultimo punto: la trattativa tra i commercianti cinesi e il Comune è andata a farsi benedire, con tutta probabilità non ci sarà nessun trasferimento, nè ora nè mai. Sarebbero troppe le attività da traslocare, troppi gli interessi in ballo, e non è nemmeno facile sradicare i cinesi da una zona che, giorno dopo giorno, sembra chiudersi sempre più in se stessa.
Dopo la rivolta Chinatown è tornata a vivere nel proprio micromondo, fatto di silenzi, di strade che brulicano di carrelli, di scatoloni ammassati, di appartamenti dalle imposte sempre abbassate, di negozi sempre vuoti e disordinati, di ghettizzazione volontaria e involontaria.
I cinesi non vogliono integrazione. I milanesi non accettano la loro presenza. Lo scontro è quotidiano, passeggiando in Paolo Sarpi si respira tensione, i negozianti ti scrutano guardinghi, soprattutto quando passi davanti alle loro vetrine con una videocamera in mano, come abbiamo fatto noi ieri.
La tensione è rimasta nell'aria di Chinatown.
La polizia c'è, eccome. Vigili che girano in moto, pattuglie di polizia e carabinieri che controllano procedendo ad andatura lenta, posti di blocco per fermare i furgoncini. Ieri mentre eravamo lì, ne hanno fermato uno. Con un italiano a bordo. Controllo di routine. Già, ma perchè proprio un italiano? Ce lo chiediamo perchè in quel momento passavano allegramente carrelli a destra e a sinistra. Forse le forze dell'ordine hanno paura?
Insomma, nulla è cambiato. I pochi negozi con insegna italiana che resistono hanno personale cinese, sintomo che ormai tutto ciò che nasce e cresce all'interno del "quartiere rosso" è di loro proprietà; o comunque sotto il loro controllo.
Il ghetto cinese è sempre più ghettizzato. Per colpa nostra e loro. E' brutto a dirsi, ma sembra un mondo a parte che prima o poi potrebbe riesplodere.