Giornalista pubblicista, scrittore, autore e conduttore radiofonico.
Tommaso Lavizzari si occupa di lifestyle e di sport in tutte le loro declinazioni. Crea e sviluppa progetti editoriali per brand, realtà aziendali e imprenditoriali di varia natura.
Tra maggio 2018 e giugno 2019 è stato Direttore editoriale di Sport Tribune e Soccer Illustrated per Bel Vivere Media. Oggi è Executive Editor di digitalnomadslifestyle.com e collabora con varie realtà editoriali.
É autore e conduttore di C’era una volta O Rei, format dedicato a una visione più pop del calcio e dello sport, e commentatore calcistico per alcune realtà radio-televisive.
Nel 2014 ha realizzato con Francesco Aldo Fiorentino, per Volo Libero Edizioni, il libro «Surfplay, il migliore è quello che si diverte di più». Nel 2018, sempre con Francesco Aldo Fiorentino, ha realizzato per Mondadori Electa il libro «SURF. Un mercoledì da leoni 40 anni dopo».
Tommaso, il lavoro che fai è essenzialmente quello dell’autore. Un autore a tutto campo, dalla comunicazione allo scrivere articoli e libri ma anche autore radiofonico e spesso sei ospite di programmi televisivi e radiofonici.
Quando hai deciso di intraprendere questa carriera? Oppure ti sei trovato non intenzionalmente a intraprendere questa carriera?
Oggi quelli bravi chiamano il lavoro che provo a fare: content creator (Risata, N.d.R.). É una domanda che mi mette sempre in difficoltà, lo ammetto. Parlo tanto ma non amo parlare di me stesso. Direi che mi sono ritrovato a fare questo lavoro non intenzionalmente ma, probabilmente, non ho mai fatto altro.
Ho sempre avuto molte passioni e ho trascorso la vita inseguendole. La musica; il cibo e il vino; il cinema; lo sport, il calcio in particolare; la moda e il design. Il filo conduttore di tutto è sempre stata la scrittura. Ho suonato il basso per anni in varie band e nel frattempo scrivevo poesie e racconti. All’Università ho studiato Linguaggi dei Media specializzandomi in Storia e Critica del Cinema e, contemporaneamente, mi sono diplomato in Sceneggiatura cinematografica e televisiva alla scuola serale.
Ho cominciato a lavorare in discografia occupandomi della comunicazione del Bicentenario di Casa Ricordi 2006-2008, scrivevo di Musica Classica; materia che ho ritrovato nel 2016 entrando nella squadra che si occupava della comunicazione di MITO Settembre in Musica, il festival di Musica classica che lega Milano e Torino. Ho aperto un locale, il Sergeant Pepper’s, che ho gestito per 5 anni, occupandomi anche della comunicazione e delle serate. É stato bellissimo, mi manca molto.
Nel mentre scrivevo di ristoranti per un freepress d’arte e con un amico ho creato un magazine online, Nomaître, in cui raccontavamo il cibo in modo molto informale; si è poi trasformato in una trasmissione radio: C’era una volta la pausa pranzo. Durante quel periodo, infatti, avevo cominciato a collaborare con Radio MilanInter Tv dove, per 8 anni, ho scritto e condotto C’era una volta O Rei, una trasmissione che racconta il calcio e lo sport nella sua veste più POP.
Hai presente Beppe Viola? Ecco, l’ispirazione è lui, anche se a confronto non sono e non sarò mai nessuno. Lui è un gigante. Siamo anche finiti su un libro: Calciopop di Giovanni Tarantino. La Radio è un amore impareggiabile che mi manca molto. Radio MilanInter Tv ha chiuso le trasmissioni e, da un paio d’anni, aspettiamo la proposta giusta per riprendere C’era una volta O Rei. Ceduto il locale, la Radio è diventata la mia vita e da lì ho cominciato con il giornalismo sportivo e lifestyle scrivendo per vari magazine, fino a diventare direttore di Sport Tribune e Soccer Illustrated.
Esperienza terminata a giugno 2019 per divergenze con l’editore. Oggi collaboro con qualche magazine che si occupa di lifestyle, creo contenuti per brand e realtà di varia natura; sono caporedattore di un magazine appena nato e ambizioso che mi piace molto: digitalnomadslifestyle.com.
Negli ultimi anni ho scritto due libri con te che mi rendono parecchio orgoglioso. Questo lo sai già. Ne parli tu? (Risata, Nd.R.) Come vedi non c’è stato un vero e proprio progetto, ho seguito l’onda e sono rimasto a galla, almeno per ora.
Se non fossi stato a Milano avresti probabilmente intrapreso lo stesso questa carriera? Quello che ti chiedo é se il fatto di essere a Milano ti abbia reso più facile a livello di spunti e stimoli ma anche di opportunità lavorative.
Probabilmente sì. Come ti dicevo prima, non credo di saper fare altro. Ho sempre cercato di rendere le mie passioni un lavoro e per ora ci sono anche riuscito, più o meno. Amo tanto Milano, è la mia città. É la mia casa. Ci sono nato e cresciuto, da una famiglia milanese. É una grande fortuna perché è una città che ti offre tutto, soprattutto stimoli continui. Troppi, forse. Essere di Milano ha reso più facile molte cose ma le ha anche complicate.
C’è una competizione spietata, vivere a Milano è costosissimo e i compensi, sopratutto per un libero professionista, non sono quasi mai in linea con le spese da sostenere. Si deve lavorare sempre troppo per far quadrare i conti. C’è poco tempo per la vita a volte. A me piace camminare nel bosco, ad esempio, e vorrei anche costruire una famiglia, un giorno. Non so se mi piace questo aspetto di Milano e per questo non so se ci resterò in futuro; come non so se continuerò a fare quello che faccio oggi.
Oggi è così, domani si vedrà. Non fossi nato a Milano forse avrei avuto meno opportunità ma avrei una vita più serena. Fai delle domande difficili, lo sai? (Risata, N.d.R.)
Come hai visto cambiare Milano da 20 anni a questa parte sia a livello di fisionomia urbana che di persone che la abitano, come è cambiata la città e come sono cambiati i milanesi.
Non posso che parlare bene di Milano. La amo. Come ogni grande amore, però, quando si litiga è lo Sturm und Drang. Ammetto che negli ultimi 20 anni ci ho litigato spesso. Ho pensato spesso di andarmene, ma per fare il mio lavoro – che sia un locale, la radio o scrivere – serve una padronanza perfetta del tessuto sociale e culturale in cui si è inseriti, quindi è una decisione molto complicata da prendere.
Serve equilibrio. Lasciare Milano non è facile. Penso che Milano sia cresciuta tanto e bene ma che non fosse ancora del tutto pronta per finire in Champions League. Milano non è l’Italia come Londra non è l’Inghilterra, per fare un esempio. Solo che gli inglesi gestiscono Londra in maniera diversa rispetto al resto del Paese, mentre per Milano questo non succede. Milano è bellissima, affascinante, solo che quando ti svegli la mattina e te la trovi di fianco struccata non fa sempre lo stesso effetto.
Mi sono spiegato?
Non bastano gli slogan per far funzionare le cose. Sono nato nella Milan col coeur in man e oggi il cuore, pur essendocene sempre tanto, lo teniamo in tasca più che in mano. Non vorrei che questa meravigliosa crescita si sia dimenticata di quella che è la natura della città. Milano ha insegnato al mondo molte cose, mentre oggi insegue gli altri. Evolversi è necessario, solo non si dovrebbero mai perdere di vista le proprie radici, la propria unicità.
Milano si autoregola, si amministra da sola, e saprà trovare la propria strada anche questa volta. Vorrei solo vedere meno protagonisti: è Milano a rendere grande chi ci vive, non il contrario. Dici che ho esagerato? (Risata, N.d.R.)
Hai un rapporto con il calcio che sembra quello di Philip Marlowe verso Los Angeles. Spiegaci la tua passione per il calcio e come lo vivi.
Te l’ho detto che fai delle domande difficili? (Risata, N.d.R.) Per me il calcio è una metafora della società.
Se tu racconti il calcio, racconti la realtà senza filtri. Amo molto il gioco in sé. Amo l’estetica del passato, non per nostalgia ma perché vivevo tutto con passione e stupore. Mi ricorda la spensieratezza che non ho più. Credo che lo spartiacque sia stato il 2003. Quel Derby in semifinale… la finale di Manchester… non proseguo perché so che soffri a parlare di certe cose. Lì si è chiuso il cerchio delle emozioni.
Oggi lo guardo come una serie tv. Vedo, o meglio vedevo tantissime partite a settimana, di qualsiasi tipo. Ho girato con Enrico Lazzeri, mio socio a C’era una volta O Rei, tutti i Balcani, ad esempio, e ho imparato la loro storia attraverso il calcio. Sono il Brasile d’Europa e per loro il calcio è vita. Non a caso la Guerra dei Balcani si identifica con quel famoso calcio che Zvonimir Boban diede al poliziotto serbo il 13 maggio 1990.
Mi piacciono le storie che racconta il calcio, anche se non sono un appassionato di storytelling.
Come è andata la quarantena in città? Come ne uscirà Milano e la Lombardia da questo flagello di morti e da questa cattività ? Trovi che le persone siano cambiate?
Ti posso leggere quello che ho scritto a metà aprile? Racchiude il mio pensiero anche oggi, a un mese di distanza.
«Non saremo migliori. Saremo quello che siamo. Non andrà tutto bene. Andrà come deve andare.
Dimenticheremo. Com’è sempre stato nella storia, ben prima di noi e per cose ben più gravi. Non istituiremmo le giornate della memoria altrimenti.
Non dimenticheremo le persone che se ne sono andate per sempre. Perché le cicatrici restano sempre visibili e fanno male tutta la vita, anche se ci si convive.
Non dimenticheremo le persone che sono semplicemente uscite dalle nostre singole vite, su cui è stata posta una innaturale lente d’ingrandimento. Costretti a un’indigestione di analisi e confronti che, diluiti, forse avrebbero ucciso più lentamente alcuni rapporti, alcune coscienze; forse sarebbero state riassorbite, poco alla volta, come qualsiasi veleno non letale, se assunto in piccole dosi.
Non dimenticheremo la quarantena. Continueremo, però, a non difendere la nostra libertà. Non l’abbiamo difesa in questi mesi. Non l’abbiamo difesa durante gli anni precedenti. Perché è più facile limitare quella altrui che difendere la libertà di tutti. Perché è più facile abbassare gli altri che provare ad alzare noi stessi.
È più facile curare un mal di testa tagliandola, la testa. Il paziente muore comunque, non di mal di testa. Problema risolto.
Ci siamo dimenticati che per la nostra libertà hanno combattuto e sono morte milioni di persone, molto prima di noi, molto prima di questi due mesi. Non potevano stare chiuse in casa loro, né per difendersi da un virus, né dalle bombe.
Non chiamiamola guerra, perché se scoppiasse anche solo una bomba nel centro di Milano, altro che 30.000 morti; altro che terapie intensive al collasso. Altro che politici che si insultano. Altro che MES. Altro che ‘state a casa’, con le sirene e gli aerei sopra la testa. Io le ho conosciute le persone che hanno vissuto una guerra, dall’altra parte dell’Adriatico, negli anni ‘90, non in un’altra vita.
Torneremo alla normalità molto prima di quanto pensiamo, purtroppo. La normalità è sempre stato il problema. È vero. Ha ragione chi lo scrive.
Ognuno di noi è il problema. I politici che noi critichiamo non si sono eletti da soli, li abbiamo scelti noi. I medici, che oggi sono eroi, erano indifferenti a tutti, prima. I vizi che critichiamo negli altri sono in ognuno di noi. Le rinunce, che chiediamo agli altri, siamo i primi a non accettarle.
Dovremmo imparare a osservare gli altri come se fossimo davanti allo specchio, non come se fossero dei pesci in un acquario. Dovremmo semplicemente smetterla di sentirci migliori, più intelligenti o più meritevoli di chi abbiamo intorno. Io per primo».