Il 4 e 5 maggio prossimi al Teatro Officina andrà in scena uno spettacolo dallla forte impronta sociale.
Il titolo, di per sè, è già indicativo: Il burqa e la velina – Il disagio femminile fra oriente e occidente, un atto unico di e con Alessandra Faiella.
Al testo ha collaborato Giovanna Ramaglia con la consulenza della Casa delle donne maltrattate di Milano. Si affronta un tema importante, scomodo, troppo spesso accantonato o trattato solo in "occasioni comandate" (leggi festa della donna).
Essere nate col sesso “sbagliato” è un problema in gran parte del mondo.
Le cifre ormai sono ufficiali: secondo il Centro per il controllo demografico delle forze armate (Dcaf) sono circa 200 milioni le donne, ragazze, bambine “demograficamente scomparse”.
Demograficamente scomparse: eliminate, soppresse, uccise, solo perché femmine. E’ un olocausto, lo sterminio di massa più spaventoso dell’umanità. Molte vengono uccise appena nate, altre non riescono nemmeno a nascere perché eliminate con aborti selettivi, altre ancora non arrivano alla pubertà. E se in gran parte del mondo mancano libertà e diritti civili fondamentali, anche nell’Occidente “democratico” abbondano stupri, violenze domestiche, delitti d’onore e omicidi per vendette personali.
Per non parlare dell’utilizzo del corpo femminile da parte dei media, sempre più mercificato e ridotto a mero oggetto sessuale. “Il burqa e la velina” è uno spettacolo–documento sulla condizione femminile nel mondo, che si avvale di articoli, letture, racconti di donne “vive” che hanno narrato in prima persona la loro storia. Donne che vivono fra noi ma che provengono da altri Paesi e realtà diverse, che quasi sempre stridono con la nostra ma che talvolta, sorprendentemente, le assomigliano.
Ed è proprio attorno a questa sorpresa, a questo spaesamento causato dal riconoscere la nostra condizione non troppo dissimile a quella delle donne di “altri mondi” che lo spettacolo si articola e prende forma, coniugando lo stile giornalistico con il ritmo e l’esposizione teatrali, mantenendosi in equilibrio fra lo sgomento di fronte a una silenziosa tragedia e l’ironia su alcuni aspetti del disagio femminile, quelli cioè che noi “donne libere” non vorremmo riconoscere.