Paolo Gamerro è di Busto Arsizio, che non è propriamente Milano, ma non é sicuramente nemmeno Varese anche se tecnicamente lo è.
Paolo ha pubblicato 3 libri :Milano Horror (Chinaski edizioni), Sbiadire (Augh edizioni) e Il libro nero dei brutti (Scatole parlanti edizioni) e ha scritto per Verde Rivista.
Paolo hai scritto 3 libri che sono diversi tra loro ma hanno in comune l’essere inquietanti e raccontare il disagio in maniera sintetica ma letteraria. Leggendo i tuoi libri ci si aspetterebbe che tu sia una persona via di mezzo tra Norman Mailer e Eduard Limonov invece no sei una persona pacata, autoironica e con un divertente senso dell’umorismo.
Perché tratti questi temi è come vengono fuori i tuoi protagonisti?
Non saprei. Non mi metto mai alla scrivania e penso “adesso scrivo di questo o di quello”. Scrivo di ciò che mi colpisce o mi spaventa, elaboro suggestioni che prendo da questo strano contenitore nel quale siamo tutti immersi e che chiamiamo realtà. La scrittura è per me qualcosa di assolutamente spontaneo e fluido. Scrivo quello che voglio e come voglio.
Non sono un “grande scrittore”, non ho scadenze, non ho pressioni. Se sento l’urgenza di parlare di un argomento lo faccio, altrimenti se non ho interesse lascio stare. Non ho mai in mente una storia che vada da A alla Z quando la butto giù per la prima volta. Così anche per i personaggi: nascono con i mondi che creo ma poi è come se prendessero da soli la propria direzione e avessero una vita propria, indipendente dal disegno di chi li ha creati.
Sei di Busto Arsizio ma formativamente e culturalmente sei milanese. Influisce Milano sulla tua scrittura?
Ho studiato e lavorato per molti anni a Milano, i miei primi due romanzi sono ambientati lì. Nel terzo invece lo scenario cambia, e da una metropoli passiamo a un paesino di provincia difficile da inquadrare in una dimensione storica e temporale, decisamente più simile a Busto Arsizio (la cupa e deprimente cittadina in cui vivo) che a Milano.
A Milano associo tanti bei ricordi e molte amicizie.
Contemporaneamente suonavi in una band punk e so che stai riprendendo a suonare, pensi che ci sia una continuità che sfoci nella scrittura?
La domanda è punk e scrittura sono immaginari collegati? Ascoltare musica per me è fondamentale come respirare. Sono cresciuto ascoltando punk rock e da lì non mi sono schiodato. Il punk rock e l’hardcore non sono soltanto generi musicali, ma una forma di attitudine con cui affrontare la vita, almeno così vale per me.
Ho suonato la batteria in un gruppo hardcore, dai diciassette ai ventiquattro anni, ho girato il mondo con il tupa-tupa. Non era un lavoro, era un hobby, e quando andavo in tour era come andare in vacanza: mi divertivo, conoscevo posti e persone nuove. La musica è la mia forma di yoga, quando l’ascolto vado in un altro mondo dove tutto è pace. Ma è con la scrittura che sento di comunicare nel modo più chiaro una problematica o un disagio.
Non so se ci sia un nesso tra il mio modo di scrivere un racconto e suonare un pezzo dei No More Fear, probabilmente no, ma fa tutto parte di me, della persona che sono ora. Ho ripreso a suonare, ma per gioco e con vecchi compagni del liceo. Proviamo quattro volte all’anno, più o meno, e ogni volta ci facciamo delle grandi risate a parlare dei vecchi tempi. Nessuno di noi sa davvero suonare, ci troviamo perché siamo molto amici e vogliamo tenere viva la passione.
Non faremo mai un live, credo, ma va bene così.
Di cosa tratterà il tuo prossimo libro?
Non lo so ancora, ma so che sarà qualcosa di decisamente meno teso e angosciante rispetto al mio ultimo “libro nero dei brutti”. Ogni volta che mi metto al computer, penso a scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa che non ho mai provato a fare. Vedremo, probabilmente ci sarà tanto da ridere…