Giulio Iacchetti è un product designer.
Interista, ha vinto – o meglio, guadagnato – nella sua carriera diversi riconoscimenti importanti, tra cui due premi Compasso d’Oro, ed è il primo personaggio che scelto di intervistare per “Milanin, Milanon“, appuntamento a cadenza settimanale su Milano – Notizie.it. Ci occuperemo di persone milanesi di nascita o “di attitudine” che in un certo qual modo incarnano quella “Milàn che fa andá i man“ e “Milàn cunt el coeur in man”.
Ti occupi di product design, che vuol dire coniugare la funzionalità con l’estetica di un prodotto.
Quanto hanno influito l’immaginario della tua gioventù e l’ambiente della bassa padana e quanto influisce invece Milano?
Come succede (credo) per tutti, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono formativi. Nelle storie del paese (io vivevo nella provincia di Cremona), dei personaggi che ho conosciuto, delle storie medio-padane che ho ascoltato e che ho contribuito a creare, ecco, in tutto quel coacervo di cazzate, impegno politico, discussioni notturne, serate all’Acli, precarietà e noia…
lì trovo tutte le risposte alle domande che sono arrivate poi.
Come trovi cambiata Milano negli ultimi venti anni?
Milano è il cambiamento, queste due parole sono speculari e sinonimi. Milano è una ruota che gira e noi in questo momento siamo ben accoccolati sul calcinculo, è il nostro momento.
Vediamo la città dall’alto, ce la godiamo, ma ho chiaro il presentimento che il giro di giostra finirà.
Niente di escatologico, ma è bello percepire che altri arriveranno dopo di noi che abbiamo ascoltato e mitizzato la Milano degli anni Sessanta: il decennio dei Beatles al Vigorelli, dei fratelli Castiglioni, di Ornella Vanoni, delle meravigliose insegne luminose di fronte al Duomo, e poi il bianco e nero degli anni Settanta con i morti per strada e il telegiornale che parlava di scioperi, operai con baschetti calati i sugli occhi e la sigaretta stretta tra le labbra, gli anni Ottanta con i socialisti, e i paninari che ho fatto in tempo a vedere nelle mie frequentazioni extra universitarie, e poi gli anni Novanta che per me sono stati l’approdo a Milano, e a seguire gli anni zero con il design e il fuori Salone…
mi fermo qui perché ho superato il limite consentito delle banalità e dei luoghi comuni.
Pensi che Instagram, Facebook e i nuovi media abbiano influito positivamente o negativamente sulla comunicazione nell’ambito del design?
Non c’è dubbio che questi mezzi hanno un indice di democrazia e di libertà che io considero positivamente.
Hai sempre avuto dei collaboratori molto giovani e molti di loro poi hanno intrapreso una brillante carriera e io ho sempre visto il tuo studio come un po’ una via di mezzo tra una bottega di arti e mestieri e una factory, nel senso che convivono un aspetto organizzativo ed efficiente che oltre ai rendering e ai 3D include il foglio e la matita, il tornio e la lima,, che già di per sé non è comune negli studi, e un approccio culturale che è quasi di brainstorming fatto di pareri, impressioni e discussioni.
È così? Come scegli i tuoi collaboratori?
Mi piace molto selezionare personalmente le persone che poi mi accompagneranno nel lavoro in studio. Credo di essere un bravo selezionatore. Non mi interessano i curriculum sfavillanti, la mia scelta si basa su parametri sottotraccia che non ti voglio raccontare perché è un segreto del mestiere.
Sei un appassionato di musica, leggi in maniera onnivora cose che vanno dalla letteratura al romanzo di genere, dai fumetti a libri di design, grafica e illustrazione. Ecco, puoi dirci quali autori di quello che leggi o ascolti ha una influenza su quello che progetti, se ne ha, o magari alcune sono solo letture e ascolti di evasione?
Non sono un appassionato di musica, credo: è da 40 anni che ascolto gli stessi autori e le stesse canzoni, ogni tanto aggiorno la mia playlist, ma fondamentalmente i miei riferimenti sono quelli e basta e avanza.
Poi ci sei tu che ogni tanto mi introduci a qualche nuovo autore, sia del mondo del fumetto che della letteratura. In generale tu sei per me un pusher di cose e persone che alla fine alimentano il mio immaginario con le loro opere, parole, disegni.
Consiglia un autore secondo te poco noto che andrebbe conosciuto. Puoi consigliarne anche più di uno per genere e di diversi generi.
Ça van sans dire: Daniel Clowes, Jerome K.
Jerome, Saul Steinberg.
Quali sono i tuoi oggetti di design preferiti? Quali secondo te ingiustamente sottovalutati? E quali quelli che rappresentano maggiormente Milano?
Io non vedo distinzioni tra oggetti “normali” e oggetti di design…
alcuni di questi ultimi hanno assunto l’ingombrante nomea di icone e così diventano rapidamente indigesti perché la moka Bialetti (per esempio) non è fatta per stare in una teca al museo, ma sul fornello di casa. Io scelgo oggetti “compiuti” ovvero corretti, inconsapevolmente buoni, dove per “buoni” intendo oggetti belli perché funzionali e viceversa. Ho qui sul tavolo la paletta che gli operatori dei fast food utilizzano per riempire agevolmente i sacchetti delle patatine fritte e credo sia uno strumento bellissimo: lo guardo e mi comunica serenità.
Se dovessi riassumerne in un oggetto Milano, ti direi la lampada Arco dei fratelli Castiglioni: in ogni casa borghese la puoi vedere protesa a illuminare il tavolo della sala. Modernità, borghesia, salotto buono: ecco Milano che si manifesta!