Un esame critico sul caso di Giulia e le sue implicazioni giuridiche.

Argomenti trattati
Il sistema giudiziario italiano, in casi di femminicidio, sembra talvolta più orientato a tutelare i diritti degli assassini piuttosto che a garantire giustizia alle vittime. La recente sentenza sull’omicidio di Giulia Tramontano, uccisa nel maggio 2023 dal compagno Alessandro Impagnatiello, solleva interrogativi inquietanti sulla percezione della giustizia e sulla sua efficacia nel proteggere le donne. Chiara, la sorella di Giulia, ha espresso la sua indignazione e il timore per un futuro in cui l’aguzzino potrebbe tornare a vivere normalmente, una prospettiva che suona come una condanna permanente per chi ha subito un torto così incommensurabile.
Un omicidio che non può essere dimenticato
Il femminicidio di Giulia non è solo una tragica storia personale, ma un riflesso del grave problema sociale che affligge il nostro Paese. Dopo l’omicidio, la sentenza d’appello ha confermato l’ergastolo per Impagnatiello, ma i dettagli emersi nei documenti legali sono sconcertanti. I giudici hanno escluso la premeditazione, affermando che la volontà di uccidere sarebbe emersa solo nelle ore precedenti il delitto. Questo approccio, che minimizza la brutalità dell’azione, dà l’impressione che si stia accontentando di una spiegazione superficiale di un atto che ha distrutto una vita e una famiglia.
Le parole di Chiara risuonano forti, manifestando un sentimento di impotenza. La sua paura quotidiana, la consapevolezza che un’aggressione possa degenerare in un femminicidio, è il risultato di una società che continua a non proteggere adeguatamente le donne. La frase “sarebbe come uccidere Giulia due volte” evidenzia il fallimento di un sistema che dovrebbe esigere giustizia e protezione per le vittime, invece di dare spazio a interpretazioni legali che sembrano scusare l’inasprimento della violenza.
Il problema non è solo individuale, è sistemico
Il femminicidio è alimentato da una cultura che tende a giustificare comportamenti violenti. La decisione del tribunale di considerare le azioni di Impagnatiello come “azioni neutre” è un chiaro segnale di come la giurisprudenza possa fallire nel riconoscere la gravità di una situazione. Avvelenare Giulia per sei mesi non può essere considerato un comportamento impulsivo; al contrario, è il segno di una volontà di controllo e possesso che si traduce in violenza finale.
La corte ha stabilito che le azioni precedenti all’omicidio non configuravano un piano preordinato, ma è difficile non vedere un disegno di morte in un comportamento così calcolato. La famiglia di Giulia vive nella costante paura di una possibile riduzione della pena, un’incertezza che amplifica il loro dolore. La società deve interrogarsi: che messaggio stiamo trasmettendo quando la giustizia sembra più attenta alle circostanze del colpevole che al dolore della vittima?
Conclusioni che disturbano ma che devono far riflettere
Il sistema legale ha bisogno di una revisione profonda se si vuole realmente combattere il femminicidio. La legge deve diventare uno strumento di protezione, non solo di punizione. È necessario smettere di considerare il femminicidio come un episodio isolato, ma come un problema sistemico che richiede una risposta collettiva e coerente. La paura di Chiara non è solo una questione personale, ma un campanello d’allarme per tutta la società.
È fondamentale riflettere su queste dinamiche e non accettare passivamente le sentenze che, in nome della giustizia, possono tradursi in una vera e propria sconfitta per le vittime. La strada verso una società più giusta e sicura per le donne è lunga e tortuosa, ma ogni passo in avanti è fondamentale. È imperativo non voltare le spalle a chi ha sofferto, né tantomeno a chi potrebbe soffrire in futuro.