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Milano, 5 ottobre 2024 – Documenti qualificati confermano che Renato Vallanzasca è affetto da demenza, vivendo in totale mancanza di consapevolezza riguardo a se stesso, al suo passato turbolento e alla pena che sta scontando: quattro ergastoli, per un totale di 295 anni in carcere.
A 74 anni, dei quali 52 dietro le sbarre, non è ancora giunto il momento per lui di lasciare il penitenziario di Bollate per ricevere assistenza all’Opera di Provvidenza Sant’Antonio, nelle vicinanze di Padova.
Pertanto, il 14 ottobre, Vallanzasca sarà sottoposto a visita da parte di una commissione. Se verrà riconosciuto invalido, potrà richiedere un trattamento pensionistico per coprire, almeno parzialmente, le spese nella struttura veneta.
Il passare del tempo non ha smorzato né il dolore né la rabbia, come evidenziato dalle parole di Alberto Barborini, fratello di Renato, il quale era un appuntato della polizia stradale, deceduto il 6 febbraio 1977 insieme al maresciallo Luigi D’Andrea.
I fuorilegge aprirono il fuoco, i poliziotti risposero.
Furiato morì, mentre Vallanzasca, ferito, fu catturato a Roma il 15 febbraio. “Ci sono tante cose – afferma Alberto – che fanno male. Vedere quella persona in TV, che sostiene di non aver sparato per primo e di non aver colpito alle spalle. Non è la verità. D’Andrea è stato colpito da dietro, come confermato dall’autopsia.”
Sentire che non c’è motivo di porgere scuse perché un agente sa bene a cosa va incontro.
Ciò che mi ferisce ancor di più è il comportamento dello Stato. Quando mio fratello e D’Andrea sono venuti a mancare, quell’individuo aveva già un passato di condanne e aveva commesso un omicidio. Se fosse stato bloccato in tempo, avrebbe evitato altre vittime innocenti. La mia domanda è: dove si trovava lo Stato mentre quell’uomo continuava a uccidere? “Siamo costretti a versare tributi per una creatura feroce”, afferma.
“Non credo minimamente alle sue condizioni. Sono certo che io e tutti gli italiani continueremo a versare dati per mantenere un animale”. I ricordi affiorano, dolci e dolorosi. “Avevo quattordici anni e due fratelli maggiori, uno di quindici anni, l’altro di tredici. I genitori si erano trasferiti in un condominio a Folgarida, in Trentino. Era una domenica e stavo dando una mano. “Basta così – mi ha rimproverato mia madre -, vai a sciare”.
Così, mi sono diretto in pista. Subito dopo sono stato chiamato dall’altoparlante per Barborini Alberto. Ho pensato a mia madre e mio padre; in casa si era radunata una gran folla. “Un piccolo incidente con Renato, niente di serio. Cambiati e partiamo”, mi hanno detto. Sembra che mia madre avesse sentito un presentimento: alle 9:50, istante in cui è occorso l’evento, ha avuto un attacco di ansia. Alla radio annunciavano l’uccisione di due poliziotti a Dalmine.
Ricordo la disperazione di mia madre, mentre papà cercava di calmarla: “Dai, non può essere Renato”. I carabinieri sono intervenuti, tentando di rassicurarci. Ma già eravamo consapevoli.
Mia madre ha subito un infarto e per due giorni è stata in un delicato stato tra la vita e la morte. Prima che chiudessero la bara, ha potuto incontrare di nuovo suo figlio.