Per Saodat Ismailova, filmaker e artista della neonata generazione uzbeka dopo l’epoca sovietica, la memoria rappresenta un elemento di equilibrio e guida nella sua creazione artistica, ancor più necessario al giorno d’oggi.
Ismailova, residente tra Parigi e Tashkent, ha inaugurato la sua prima mostra retrospettiva negli affascinanti spazi del Pirelli HangarBicocca a Milano. L’esposizione, intitolata “A See Under Our Tongue” è aperta fino al 12 gennaio e l’ingresso è gratuito. La mostra offre un’avventura ipnotizzante attraverso video e installazioni incentrate su temi universali come la relazione tra l’uomo e la natura, la tradizione, la conoscenza ancestrale e l’interpretazione della femminilità.
L’artista usa come toni predominanti quelli del patrimonio socioculturale dell’Asia Centrale, la sua terra natia. Visitare i luoghi rivelati dalle sue opere, come Arslanbob (un film girato sulle rive dell’Amu Darya), il seme d’oro di Amanat e la replica in resina di una grotta in “The Mountain Our Bodies Emptied”, sarebbe un viaggio affascinante. La memoria, nella visione dell’artista, disperde semi, ciascuno dei quali custodisce segreti e misteri, è imprescindibile, delicato ed eterno.
Quanto a quale delle sue opere le sta più a cuore, Ismailova sorride e non riesce a scegliere. Suggerisce però al pubblico di cominciare da “The Haunted”, una metafora del 2017 che allude alle lingue, memorie e paesaggi che si stanno perdendo o che vengono distorti. Il film narra la storia mitica di una tigre del Turkestan, estinta durante l’industrializzazione sovietica, divenuta simbolica del tesoro delle lingue, memorie e paesaggi dissolti o modificati dal potere o dal controllo umano.
La tigre, un archetipo sacro e messaggero dei nostri antenati, rimane ancora viva non solo nella memoria collettiva ma anche nei sogni di molti. Inoltre, Chillahona, un’installazione video presentata per la prima volta in Italia durante la Biennale di Venezia nel 2022, include un vasto ricamo che incorpora elementi del video nell’opera d’arte. Questa opera, una moderna rielaborazione dell’antico ricamo cosmologico uzbeko chiamato falak, è stata ideata da Ismailova e realizzata con abilità da Madina Kasimbaeva.
Si tratta di una cosmologia che si collega al film e ne amplia il senso, esplorando la sensazione di vuoto e caos che pervadeva il periodo della Perestrojka in Uzbekistan, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Chillahona porta un titolo che rispecchia la tradizione e il potere femminile di dedicarsi al silenzio per 40 giorni, poiché “Chilla” in persiano significa quaranta.
Inoltre, è degno di nota un’installazione creata utilizzando crine di cavallo, materiale che un tempo veniva usato per indicare le sepolture sacre o per creare dei veli femminili.
Questa scultura aerea, lunga 11 metri, vede proiettate su di essa le parole del giovane poeta uzbeko Jontemir Jondor.
Un’altra opera, “As We Fade” (2024), consiste in 24 pannelli sottili di seta bianca – sospesi e disposti in linea – su cui scorrono immagini di pellegrini e residenti del monte Sulamain-Too, situato nel cuore della città di Osh.
Queste scintillanti narrazioni ti avvolgono completamente, grazie alle due grandi opere che dominano l’intero ambiente espositivo, Stains of Oxus (2016) e Arslanbob (2023-24).
Questi film sono stati ripresi rispettivamente lungo le sponde dell’Amu Darya e oltre il Syr Darya, nell’odierno Kirghizistan. L’esposizione segue un percorso metaforico che traccia il viaggio del seme del dattero. Inizia dal momento in cui viene conservato nella bocca di una figura leggendaria di nome Arslanbob, per poi essere passato a colui che si rivelò il più importante e celebre mistico dell’Asia centrale, Akhmad Yassawi. Con questo dono, fondò un’immensa foresta di noci.